Venti anni, un luogo di ascolto e un percorso di cura che parte dall’accoglienza. Un rapporto svela una pratica quotidiana che rimette al centro la persona.
Le ferite invisibili sono quelle cicatrici nascoste che pesano sull’anima e sul corpo senza lasciare segni evidenti. La loro guarigione inizia con un gesto semplice ma profondo: l’accoglienza. Al Polo della carità “Don Pino Puglisi”, questo concetto si traduce in un ambiente dove ogni persona viene guardata negli occhi, chiamata per nome, e ascoltata senza fretta. Questo approccio umano rappresenta il primo passo verso un percorso di cura che abbraccia corpo, memoria e futuro, procedendo al ritmo della fiducia.
Il 5 dicembre, un rapporto ha gettato luce su vent’anni di impegno silenzioso da parte del progetto Ferite invisibili di Caritas, dedicato alle vittime di violenza e tortura. Attraverso un ambulatorio specializzato, sono state seguite 531 persone provenienti da 61 Paesi, con un’età media di 26 anni. Questi numeri non solo raccontano storie di dolore e resilienza ma sottolineano anche la diversità e la giovinezza di chi cerca aiuto.
L’accoglienza si manifesta attraverso un insieme di servizi che vanno dal colloquio iniziale alla mediazione linguistica, da un’attenzione medica qualificata a un supporto legale mirato. Questo approccio integrato segue le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, promuovendo una cura informata sui traumi e basata sulla continuità e sulle reti territoriali.
All’interno di questo percorso, diverse professionalità come medici, psicologi, mediatori culturali, assistenti sociali e operatori legali lavorano insieme per restituire alle persone capacità e autonomia. La cura non si limita a un singolo intervento ma si evolve in una relazione stabile, costruita su controlli regolari e sedute di sostegno, dimostrando che la cura è un vero e proprio patto tra individui.
Il rapporto presentato pone l’accento non sull’evento traumatico in sé, ma sulla persona nella sua interezza, valorizzando le sue risorse, competenze e la rete di supporto che si attiva intorno a lei. L’accoglienza si estende oltre le mura dell’ambulatorio, infiltrandosi nella vita quotidiana della città, nelle scuole, nei centri di orientamento al lavoro e nelle comunità, dimostrando che la cura è un processo che coinvolge l’intera società.
Per chi è interessato a saperne di più, è possibile consultare le linee guida internazionali per la documentazione e la riabilitazione delle torture (Istanbul Protocol, OHCHR) e le iniziative di Caritas sul territorio. Queste risorse offrono un approfondimento sulle pratiche di accoglienza e cura, sottolineando l’importanza di un approccio informato e sensibile alle esigenze delle vittime di violenza e tortura.
La questione che emerge da questo rapporto è: come possiamo contribuire, nella nostra quotidianità, a questa cultura dell’accoglienza che cura? La risposta potrebbe iniziare con un semplice atto di ascolto, prendendosi il tempo per comprendere e supportare chi ha vissuto esperienze di violenza e tortura.
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