Vescovo riformatore tra XI e XII secolo, modello di austerità e carità in un’epoca di grandi trasformazioni ecclesiali, oggi la Chiesa ricorda San Goffredo di Amiens.
La memoria, fissata all’8 novembre, riporta alla luce la biografia di un pastore che coniugò rigore monastico, governo energico e prossimità concreta ai poveri, in un contesto segnato dalla cosiddetta riforma gregoriana e dalla lotta contro costumi corrotti nel clero.
Fin da bambino, Goffredo fu affidato a un monastero, secondo l’uso medievale degli oblati: un ingresso precoce che lo plasmò nella disciplina della preghiera, dello studio e del lavoro. L’educazione monastica gli trasmise un gusto pronunciato per la sobrietà e per la vita comune, lontana dagli onori e dalla mondanità. Ordinato sacerdote ancora giovane, si impose per equilibrio, cultura e fermezza di carattere. Attorno ai 25 anni, gli fu affidata la guida dell’abbazia di Nogent-sous-Coucy, nel territorio di Soissons: un incarico gravoso che egli interpretò come servizio e riforma. Qui riportò la regola a un’osservanza più stretta, restituendo autorevolezza alla comunità monastica con l’esempio prima ancora che con i decreti. All’azione interna affiancò la scelta di aprire foresterie e ricoveri per pellegrini e indigenti, ritagliando tempo per la cura dei malati e la distribuzione del pane ai bisognosi.
Quando, all’inizio del XII secolo, la Chiesa di Amiens cercava un vescovo capace di ridare ordine e credibilità alla diocesi, gli sguardi si posarono su Goffredo. La scelta maturò tra pressioni del potere regio e l’attenzione del legato pontificio: si voleva un pastore integro, estraneo ai traffici simoniaci e ai compromessi. Goffredo resistette per quanto gli fu possibile. La tradizione sottolinea come egli abbia più volte rifiutato la nomina, temendo gli oneri e i rischi dell’episcopato. Vinse però, alla fine, il senso del dovere: accettò la consacrazione e, nel 1104, prese possesso della cattedra di Amiens.
All’episcopato Goffredo portò l’abito mentale del monaco. Evitò sfarzi, ridusse spese e cerimoniali, scelse uno stile di vita sobrio. La riforma, però, non fu solo estetica. Intervenne energicamente contro la simonia, riprovò il concubinato del clero, convocò assemblee diocesane per richiamare tutti, presbiteri e laici, a una pratica di fede coerente. Visitò le parrocchie, riallacciò i legami tra cattedrale e territorio, incoraggiò opere di misericordia e la cura di poveri e pellegrini. La sua fermezza gli procurò consensi ma anche opposizioni: non pochi tra i beneficiati dai costumi precedenti avvertirono la riforma come un attacco diretto ai propri privilegi.
Il tratto forse più sorprendente della sua figura è il costante desiderio di nascondimento. Goffredo rifuggiva gli onori e, per quanto possibile, gli apparati del potere ecclesiastico. Non di rado, sopraffatto dal peso del governo o amareggiato dalle resistenze, tentò di ritirarsi in monastero, attratto dalla vita eremitica e dalla grande scuola della solitudine. Alcune tradizioni lo vogliono proteso verso l’esperienza certosina; di certo è attestato il legame con i cenobi della sua regione, ai quali guardava come a porti sicuri nelle burrasche della vita pubblica. Richiamato più volte ai suoi doveri di pastore, trovò un equilibrio precario tra contemplazione e responsabilità fino a quando, stremato dalla fatica e dalla malattia, si trasferì nell’abbazia di Saint-Crépin, presso Soissons.
Goffredo morì l’8 novembre 1115. La fama di santità, maturata già in vita grazie a integrità, povertà e carità fattiva, si consolidò alla sua morte. La devozione popolare si nutrì dei racconti sulle sue visite ai malati, sui digiuni severi, sulla capacità di mettere in ordine senza umiliare. Attorno alla sua memoria si svilupparono tradizioni locali, processioni e richieste di intercessione, con un culto che varcò i confini della diocesi. L’iconografia lo ritrae come vescovo sobrio, con pastorale e libro, talvolta con segni che richiamano l’ascesi monastica.
Ricordare oggi San Goffredo di Amiens significa misurarsi con un modello di leadership ecclesiale capace di coniugare riforma morale e misericordia sociale. In tempi in cui la credibilità delle istituzioni si gioca sulla trasparenza, la sua lotta alla simonia e ai favoritismi ha un’eco non soltanto religiosa. Al tempo stesso, l’insistenza sulla povertà evangelica e sull’attenzione ai più fragili restituisce all’autorità il volto del servizio. Nelle comunità che lo ricordano, il suo nome continua a essere associato a sobrietà, responsabilità e cura del bene comune: tratti che spiegano perché, sebbene restio agli onori, Goffredo sia stato e resti considerato uno dei grandi pastori della Chiesa di Francia medievale.
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