La scena, consegnata alla memoria come una leggenda, è fissata in un giorno di festa e di fragore: 2 aprile 1810, Parigi. La città celebra le nozze di Napoleone Bonaparte con Maria Luisa d’Austria, la folla si addensa lungo le vie, i mortaretti echeggiano.
Nella calca, complice un panico improvviso, molte persone si accalcano e cadono, si urtano, fuggono senza una direzione. Tra loro ci sono Alessandro Manzoni ed Enrichetta, la moglie. I due vengono separati, travolti da un’onda umana che non concede appigli.
Lui finisce spinto verso la chiesa di Saint-Roch, sale i gradini quasi senza rendersene conto, cerca riparo nell’ombra di un tempio che offre silenzio e tregua. Qui, racconta la tradizione, Manzoni prega, domanda la grazia di ritrovare la compagna della vita. Quando esce, la ritrova. E dalla soglia di quella chiesa, aggiunge la voce popolare, esce anche un uomo “convertito”.
Questa versione, dai tratti favolistici, è probabilmente la più famosa. Ne esiste un’altra, meno concitata: Manzoni sarebbe entrato di sua volontà in chiesa, senza l’urgenza della fuga, e lì avrebbe chiesto a Dio di rivelarsi. Ma al di là delle varianti, la storiografia e la critica concordano su un punto: non ci fu una folgorazione unica, un istante miracoloso che mutò l’anima per sempre. La conversione di Manzoni fu un processo lento, stratificato, fatto di maturazione interiore, interrogativi, ritorni e ripartenze. Lui stesso, del resto, fu sempre reticente sull’argomento. Non amava narrarsi, e non cercò mai di scolpire la propria vita in un episodio esemplare. La sua fede rimase, negli anni, un cammino in tensione, bisognoso di conferme e insieme esposto al dubbio, come testimonia la fase di crisi del 1817.
La “leggenda di S. Rocco” non è priva di tratti plausibili sul piano biografico. Alessandro Manzoni soffriva di vere e proprie crisi di panico, di un’ansia profonda di fronte alle moltitudini: una forma di agorafobia che le cronache familiari e le testimonianze coeve non faticano a registrare. Che una calca parigina potesse travolgerlo non sorprende. Ma ciò che più conta è come questa materia sensibile, nevrotica, diventi, nelle sue mani, materia d’arte.
Nei Promessi Sposi, specialmente nei capitoli XII e XIII, le folle tumultuanti di Milano sono un corpo vivo, contraddittorio: insieme fragile e minaccioso, capace di pietà e di furia. Manzoni lì mette a frutto un’esperienza esistenziale: l’onda del popolo che spinge e trascina, la paura che intreccia errori e colpe, la domanda — insieme storica e morale — su ciò che regge o disgrega una comunità.
Anche i percorsi di conversione che scandiscono il romanzo portano l’impronta del suo itinerario: non l’abbaglio istantaneo e definitivo, ma un attraversamento, talvolta tormentato. L’Innominato ha una notte buia e una mattina che non cancella la lotta; Padre Cristoforo non è un santo in marmo, ma un uomo segnato da una colpa riconosciuta e trasfigurata. Dietro queste figure si intravede la grammatica manzoniana della grazia: la carità che nasce dall’amore concreto, l’incontro che muta, la fiducia che non elimina la libertà né la prova, la Provvidenza che opera nel groviglio delle circostanze.
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