Tra le luci abbaglianti dei palchi, le chitarre lanciate come proiettili e i ritornelli urlati da folle oceaniche, la storia di Blackie Lawless sembra scritta per confutare un luogo comune: che la fede e il metal siano mondi inconciliabili.
Eppure la traiettoria del frontman dei W.A.S.P. — icona dello “shock metal” degli anni Ottanta — racconta proprio il contrario, restituendo il ritratto di un artista che ha attraversato la furia, l’eccesso e la disillusione per approdare a una spiritualità dichiarata e non negoziabile.

Per capire la portata del cambio di rotta, bisogna ricordare chi è Lawless. Nato come Steven Edward Duren nel 1956, cresciuto musicalmente tra New York e Los Angeles, è stato la mente e la voce dei W.A.S.P., una delle band simbolo della scena hard & heavy californiana. La formazione esplose nei primi anni Ottanta con uno spettacolo volutamente provocatorio: scenografie teatrali, estetica tagliente, testi che sfidavano il perbenismo. L’acronimo del nome, mai chiarito in modo definitivo, è stato spesso interpretato come “We Are Sexual Perverts”: un’etichetta che ben riassumeva il gusto per la trasgressione che rese il gruppo bersaglio privilegiato di crociate moralistiche e liste nere, ai tempi del PMRC e delle audizioni al Senato USA sul rock “pericoloso”.
Dietro la corazza di cuoio e borchie, però, il motore bruciava a giri altissimi. Lo stesso Lawless lo ha raccontato senza reticenze: a un certo punto della sua vita non se la passava bene. Arrabbiato con Dio, cercava risposte altrove, rifugiandosi nell’occultismo e nelle molte “amenità mondane” offerte da un’industria che premia gli eccessi. La distanza dall’immaginario religioso dell’infanzia si era trasformata in rifiuto, alimentato — dice lui — da un indottrinamento vissuto come peso e non come libertà.
Punto di svolta
Il punto di svolta è arrivato quando, dopo anni di conflitto, Lawless ha cambiato prospettiva. “Non era Dio il problema, ma l’indottrinamento che avevo subito da piccolo”, ha spiegato. Invece di tirarsi indietro, ha scelto di tornare alla fonte, riaprendo la Bibbia con occhi nuovi. Da quella rilettura è nata una convinzione netta, diventata quasi un manifesto personale: “La Bibbia è la Parola vivente del Dio vivente”. Parole semplici, ma esplosive se pronunciate da chi per decenni è stato sinonimo di scandalo e ribellione.

La fede ritrovata non è rimasta un fatto privato. Ha rimodellato scelte artistiche e repertorio. Sul palco, Lawless ha progressivamente rinunciato a eseguire alcune hit storiche che considerava incompatibili con la sua nuova visione del mondo. È il caso, per esempio, dei brani più esplicitamente provocatori, simboli di una stagione in cui la trasgressione era il carburante dello show. Contestualmente, in studio sono arrivati album in cui i riferimenti biblici sono frontali, meditati, costruiti con la grammatica del metal senza rinunciare alla profondità spirituale: “Babylon” (2009) attinge a immagini e racconti del Libro dell’Apocalisse; “Golgotha” (2015) porta già nel titolo il cuore del messaggio cristiano, e nei testi alterna l’urgenza del riff a domande su colpa, redenzione, sacrificio.
Chi lo accusa di essere diventato un predicatore, Lawless risponde con una formula che lo rappresenta: “Qualcuno mi ha chiesto se adesso sono diventato un predicatore rock and roll, e io dico ‘No, sono un messaggero’. È questo il mio lavoro, e tutto quel che ho fatto fino ad ora mi ha portato dove sono adesso”. Non è un dettaglio semantico: in quelle parole c’è l’idea che la musica non sia un pulpito ma un veicolo, che l’esperienza passata — anche la più controversa — non venga cancellata bensì trasfigurata.
La metamorfosi di Blackie Lawless non è un caso isolato nella storia del rock, ma ha un peso specifico particolare perché nasce all’interno di un’estetica, quella dell’heavy metal più teatrale, spesso equivocata come incompatibile con ogni discorso spirituale. La sua vicenda mostra che il linguaggio può cambiare funzione: la potenza sonora, la drammaturgia del live, la simbologia forte, tutto può essere riletto alla luce di un cammino interiore. E le platee, che un tempo gridavano per l’oltraggio, oggi ascoltano un artista che chiede attenzione — e responsabilità — per il significato delle parole che canta. Quando i W.A.S.P. suonano i nuovi brani, i muri di amplificatori restano gli stessi, ma i testi, intrisi di riferimenti biblici, raccontano un’altra battaglia: non più quella contro l’istituzione, bensì quella, eterna, nel cuore dell’uomo.





