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Don Pino Puglisi che col sorriso disarmò degli assassini, la sua storia

Don Pino Puglisi col sorriso riuscì a disarmare degli assassini, la sua storia è davvero incredibile e lascia tutti senza parole.

Un sorriso, un sussurro e la mitezza come ultima, potentissima parola. La sera del 15 settembre 1993, nel quartiere Brancaccio di Palermo, don Pino Puglisi cadeva sotto i colpi della mafia.

Don Pino Puglisi che col sorriso disarmò degli assassini, la sua storia (ANSA) camminoneocatecumenale.it

Aveva appena compiuto 56 anni. Secondo le testimonianze raccolte negli anni, guardò in volto i sicari e accennò un sorriso. “Me l’aspettavo”, avrebbe detto, senza paura. Quel gesto, semplice e paradossale, entrò nella memoria collettiva del Paese e, per ammissione di alcuni dei protagonisti, incrinò la logica del terrore, spingendo almeno due degli assassini a una svolta interiore e a collaborare con la giustizia.

Nato a Palermo nel 1937 e cresciuto a Brancaccio, Puglisi conosceva dall’interno le ferite del suo quartiere: povertà, disoccupazione, dispersione scolastica, dominio capillare dei clan. Ordinato sacerdote, maturò una pastorale concreta, capace di tenere insieme catechesi, educazione e libertà di coscienza. Nel 1990 diventò parroco di San Gaetano, nel cuore del territorio controllato dalla famiglia dei Graviano. Lì impostò un lavoro paziente e tenace: strappare i ragazzi alla strada, sostenere le famiglie, aprire spazi liberi dalla cooptazione mafiosa.

Nel 1991 fondò il Centro Padre Nostro, luogo simbolo di un Vangelo tradotto in iniziative: doposcuola, corsi di alfabetizzazione, sportelli di ascolto, animazione per i più piccoli. Era un’azione capillare che intercettava i bisogni ma, soprattutto, incrinava il monopolio sociale dei boss. “Se mi portano via i bambini, mi tolgono il futuro”, ragionavano i padrini. E infatti la reazione non tardò: minacce, pressioni, sabotaggi, auto danneggiate, anonimato e isolamento. Puglisi, mite e fermo, non arretrò. Non cercava lo scontro ideologico: indicava un modo alternativo di appartenere alla città, fondato su legalità e dignità.

Don Pino Puglisi, la sua esperienza

Il punto di rottura arrivò nell’estate del 1993, quando la parrocchia aumentò le attività e don Pino Puglisi prese pubblicamente posizione contro le estorsioni e le prepotenze. In una Palermo stremata dalle stragi e ormai cosciente della portata del fenomeno mafioso, quel parroco “scomodo” diventò un bersaglio. La sera del 15 settembre, davanti alla sua abitazione in via Anita Garibaldi, due killer lo attesero. La dinamica dell’agguato è stata ricostruita nei processi grazie alle confessioni dei pentiti. Il racconto converge su un punto: quegli istanti furono segnati da uno sguardo e da un sorriso che spiazzarono gli esecutori.

Don Pino Puglisi, la sua esperienza (camminoneocatecumenale.it)

I processi hanno accertato responsabilità e mandanti, individuando nella cosca dei Graviano la regia dell’eliminazione. La giustizia ha fatto il suo corso, mentre Palermo cominciava a dire il nome di Puglisi nelle scuole, nelle associazioni, nelle piazze. Il Centro Padre Nostro è cresciuto, diventando un presidio sociale riconosciuto, e l’opera educativa si è allargata a nuovi fronti, dalla promozione del lavoro alle attività culturali. Nel 2013 la Chiesa cattolica ha riconosciuto don Puglisi martire “in odium fidei” e lo ha proclamato beato, suggellando un percorso di memoria condivisa che si era già radicato nel tessuto cittadino.

Il tratto distintivo della sua azione pastorale fu la pazienza delle cose quotidiane: ascoltare, accompagnare, creare alternative concrete. In un contesto dove la mafia si presentava come unica agenzia di servizi e di “protezione”, Puglisi decostruiva il consenso con la prossimità, restituendo ai ragazzi una scelta possibile. Non usava parole altisonanti, ma un linguaggio diretto e un metodo: responsabilizzare, lavorare in rete, togliere al clan il monopolio dell’aspettativa. “Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”, ripeteva. Quella frase, oggi, campeggia su muri e targhe, ma nacque come consegna quotidiana a una comunità che imparava a rialzarsi.

Il suo sorriso nella notte dell’agguato non fu ingenuo né provocatorio: fu l’ultima coerenza di una vita consegnata agli altri. È il motivo per cui, ancora oggi, le testimonianze dei suoi assassini suonano come una smentita radicale della cultura mafiosa: chi vive di dominio teme la libertà degli altri, chi costruisce paura non sa come rispondere alla mitezza. Nella storia di don Pino Puglisi questa asimmetria è diventata visibile a tutti, trasformando un delitto in un passaggio di coscienza collettiva. E nel quartiere dove fu ucciso, tra le strade che un tempo erano presidiate dai clan, i cortili aperti del Centro Padre Nostro continuano a narrare, ogni giorno, la stessa scelta di libertà.

Matteo Fantozzi

Giornalista pubblicista dal 2013 è laureato in storia del cinema e autore di numerosi libri tra cui “Gabriele Muccino il poeta dell’incomunicabilità” e “Gennaro Volpe: sudore e cuore”. Protagonista in tv di trasmissioni come La Juve è sempre la Juve su T9 e Il processo dei tifosi su Teleroma 56.

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