Un momento di raccoglimento, ascolto e responsabilità civile attraversa Cagliari con la Preghiera per la Pace, appuntamento che richiama comunità religiose, associazioni, istituzioni e semplici cittadini attorno a un gesto pubblico dal forte valore simbolico.
L’attenzione è catalizzata dall’attesa testimonianza del Premio Nobel per la Pace Denis Mukwege, il medico congolese che ha dedicato la vita alla cura delle sopravvissute alle violenze sessuali nei conflitti e alla denuncia dei crimini di guerra che insanguinano la regione dei Grandi Laghi. La sua voce, in presenza o in collegamento, promette di intrecciare l’orizzonte globale con il sentire di una città mediterranea che conosce il peso delle frontiere e il valore dell’accoglienza.
Il contesto in cui matura l’iniziativa è quello di un mondo attraversato da guerre protratte e da emergenze che si rimandano l’una all’altra: dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Sahel al Congo orientale, fino alle crisi dimenticate che continuano a spingere milioni di persone verso la fuga. In questo scenario, la preghiera diventa atto pubblico e civile, non un rifugio intimistico ma una forma di presenza comunitaria che apre spazio al silenzio e alla parola, alla memoria delle vittime e alla richiesta di responsabilità verso chi decide, governa, comunica.
La figura di Denis Mukwege si colloca esattamente su questa soglia tra compassione e giustizia. Chirurgo e ginecologo, fondatore dell’ospedale di Panzi a Bukavu nella Repubblica Democratica del Congo, ha trasformato un presidio sanitario in un luogo integrato di cura, protezione legale e riabilitazione sociale per migliaia di donne e bambine sopravvissute alla violenza. Il Nobel per la Pace, condiviso nel 2018 con Nadia Murad, ha riconosciuto la sua azione costante contro l’uso dello stupro come arma di guerra, ma anche il suo instancabile richiamo alla comunità internazionale perché interrompa catene di impunità alimentate da interessi economici, traffici di minerali e fragilità istituzionali. La sua presenza ideale a Cagliari aggiunge densità a un appuntamento che, per vocazione, vuole far dialogare la sofferenza concreta delle persone con la ricerca di strumenti efficaci di pace.
La scelta di Cagliari è carica di significati. Città-porto, ponte tra Europa e Nord Africa, crocevia di rotte antiche e contemporanee, il capoluogo sardo conosce da vicino le contraddizioni del Mediterraneo: la vitalità degli scambi, le occasioni culturali, ma anche le paure e i dolori che accompagnano le migrazioni forzate. È qui che la dimensione religiosa, le realtà del volontariato, il mondo accademico e i movimenti della società civile si incontrano con una sensibilità spesso attenta alle periferie, ai margini, ai giovani che cercano linguaggi e spazi per comprendere il presente. Una Preghiera per la Pace assume così il valore di un invito trasversale a ritessere legami e a generare convergenze, senza confondere la spiritualità con la retorica.
Il programma del momento di riflessione, nella sua essenzialità, punta sul potere dei gesti: il raccoglimento comune, la lettura di testi, la musica che crea varchi di attenzione, le parole di testimonianza che rifiutano il sensazionalismo per restituire complessità. In questo quadro, l’intervento di Mukwege rappresenta un passaggio-chiave: la sua vicenda personale – segnata da minacce, attentati, ripartenze ostinate – incarna una pedagogia della cura che unisce competenza professionale e visione politica, diritti umani e infrastrutture sociali. Non c’è pace senza giustizia, insiste da anni il medico congolese; non c’è guarigione senza riparazione, senza responsabilità accertate, senza comunità capaci di ascolto e di protezione.
Cagliari fa i conti anche con le proprie memorie collettive, le ferite storiche e i cambiamenti che attraversano il tessuto urbano: quartieri che cercano coesione, scuole investite dal compito di educare al confronto, parrocchie e centri culturali che sperimentano linguaggi nuovi per coinvolgere le generazioni più giovani. In questo senso, la Preghiera per la Pace si presenta come un laboratorio civico: un luogo dove le differenze non vengono appiattite, ma portate in presenza; dove le parole “diplomazia”, “cooperazione”, “diritti”, “cura” tornano a indicare strade praticabili e responsabilità condivise.
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